domenica 10 giugno 2012

Vattimo: «In Italia ci vuole una rivoluzione»

In visita a Buenos Aires per presentare il suo nuovo libro, il filosofo ed eurodeputato indica le sinistre dell’America Latina come un modello democratico da cui imparare, anche se portano i riti indigeni al massimo livello dello Stato e frenano lo sviluppo per salvar la terra. Poi, propone di cacciare i «vecchi ruderi» dall’Italia e spera nel comunismo in molti paesi. Su chi conta per farlo? I giovani appassionati alla politica: «Sono i tratti di una rivoluzione che nasce»

Pangea News - America Latina quotidiana, 19 maggio 2012. Di Filippo Fiorini


Buenos Aires – Quando si parla di Gianni Vattimo le cose più importanti da sottolineare sembrano essere la sua fama e la sua eccentricità. In favore della prima, si è soliti elencare titoli accademici e cariche onorifiche, mentre, per convincere della seconda, normalmente basta dire che è comunista, cattolico e gay al tempo stesso. Tuttavia, conoscere Gianni Vattimo di persona comporta un’altro genere di esperienza: uomo dallo sguardo curioso e il maglioncino tradizionale, in lui l’umiltà spicca sull’anticonformismo, e il desiderio di divertirsi assieme ai suoi interlocutori, vince invece il compito di rivelare loro una qualche verità filosofica, che il mestiere gli impone.
«Sono venuto a presentare il mio ultimo libro. Presentare significa far vedere, perchè ho con me solo questa copia. In ogni caso, se qualcuno ha una pennetta USB gli posso copiare il file in pdf». Così il filosofo ed eurodeputato italiano ha introdotto ieri al pubblico di adolescenti, donne serie ed anziani pensatori che lo aspettava alla Fiera del Libro di Buenos Aires, il suo nuovo lavoro intitolato Della Realtà, in cui si raccolgono e si aggiornano due cicli di lezioni sul Pensiero Debole, dettati qualche anno fa in Scozia e in Francia. Poco prima di salire sul palco, Vattimo ha però voluto dare a Pangea News la sua lettura su alcuni dei principali temi della politica mondiale, con un occhio di riguardo alle sinistre.
Essere in America Latina nel 2012 ci obbliga a parlare di grandi sinistre al potere. Ci spiega perchè queste fanno fatica a trovare i giusti successori ai leaders che le hanno fondate? Perchè i governi neoliberali o addirittura le dittature militari, con tutti i loro fallimenti, sono sempre riusciti a sostituire con facilità le loro figure di comando?
È normale che i sistemi tradizionali siano più facili da proseguire. Non hanno bisogno di capi carismatici, perchè non propongono alcuna trasformazione. Il capo carismatico può essere un rischio, perchè in Europa a volte è stato un segnale di perdita di fiducia nella democrazia rappresentativa, tuttavia, in un processo innovatore ha un ruolo fondamentale nella rottura della continuità politica esistente. Paradossalmente, in Italia abbiamo avuto Berlusconi che, come capo carismatico di destra ha rotto la continuità con il vecchio sistema, ma lo ha fatto in un modo molto poco ammissibile. Salvador Allende, al contrario, è stato in Cile un esempio positivo e fu parte di quello che potremmo chiamare un processo democratico normale.
Ecco, parliamo di democrazia. Con l’arrivo di Evo Morales al potere in Bolivia, gli indigeni hanno ottenuto un ruolo politico che per numero meritavano da secoli. Con loro è arrivata però anche la ritualità pubblica, l’esaltazione dell’ultraterreno ed il misticismo. Lei crede che lo Stato debba essere assolutamente laico o questa è solo una categoria di giudizio tipicamente europea?
Io sono sempre stato nemico del principio di identità nazionale, tuttavia, se questa identità funziona come elemento di trasformazione sociale contro un dominio e contro i dominatori, allora ben venga. La religione può essere inserita in questo discorso sull’identità, assieme a tutti gli elementi non razionali che compongono un tessuto sociale. Si, lo Stato dovrebbe essere assolutamente laico, ma questo non significa che non si possa mai nomimare il padreterno o la pacha mama, ma che si deve permettere l’esistenza di tutti i culti, siano essi i protestanti o i feticisti.
La Pacha Mama è il centro di uno dei grandi dilemmi della sinistra latinoamericana: da un lato ci sono gli indigenisti e gli ambientalisti, che chiedono un maggior rispetto per la natura, mentre dall’altro..
Ci sono gli industrialisti.
Si, esatto, che rispondono: «Abbiamo grandi classi sociali che sono state escluse per anni dalla distribuzione della ricchezza, adesso non chiedeteci di frenare lo sviluppo». Lei ha qualche proposta per risolvere il problema?
Magari ce l’avessi. Credo che non esista un principio assoluto, ma ho più simpatia per gli anti-sviluppisti. In Europa le cose vanno molto male sotto questo punto di vista, c’è un progressivo oblio della natura. Le risorse sono un problema centrale e l’industrializzazione cieca non può che portare nuovamente alle stesse situazioni che oggi per l’Europa sono un problema. Io vengo in America Latina e chiedo: Voi cosa ci proponete? Questo va al di là delle questioni economiche e ambientali, perchè anche la democrazia cubana è un’invenzione latinoamericana. Si tratta di un sistema fondato su maggiori e migliori relazioni tra comunità locali, per esempio, per fare le liste elettorali, si riuniscono le comunità di quartiere.
Assomiglia un pò al primo comunismo jugoslavo...
Si, esatto, all’inizio la cosa funziona, ma la domanda è: può durare? Lo stesso Papa in un’enciclica ha detto una cosa che mi ha fatto incazzare parecchio, ha scritto: «Le prime comunità cristiane erano comuniste, poi naturalmente tutto è finito», ma come “naturalmente”? È naturale che queste cose finiscano? Il punto è che il comunismo in un solo paese è molto difficile da mantenere, in molti paesi sarebbe diverso.
In diverse democrazie latinoamericane attuali, per esempio in quella argentina, i giovani partecipano attivamente alla vita politica e alla politica di partito. Le grandi manifestazioni sono a favore dei governi, invece in Europa..
Succede l’esatto contrario.
(foto: LMontalto Monella/PangeaNews)
Si, le proteste sono contro i governi e, anche se i giovani partecipano alla politica con la stessa passione, lo fanno in piccoli gruppi spesso in scontro tra loro. Lei ha dato una definizione molto chiara del ruolo sociale che ha la repressione del dissenso, che cosa pensa delle manifestazioni di consenso?
Credo che abbiano i tratti iniziali delle rivoluzioni. Non credo per esempio che le grandi manifestazioni a Cuba siano imposte dal governo. Immaginiamo il contesto in cui una grande rivoluzione sociale è anche una lotta nazionale contro lo straniero. Ci sono le ovvie condizioni per un consenso di massa. Potrebbe essere così anche in Europa, dove ci sono basi americane su tutto il territorio e imposizioni del capitalismo straniero. Tuttavia, facciamo fatica a fare governi veramente di sinistra. La situazione storica è diversa, per esempio, per il fatto che i movimenti di destra sono sempre stati nazionalisti, adesso il sentimento nazionale, che io continuo a deplorare, viene rigettato o accettato con freddezza. Facciamo fatica, per esempio, a cantare l’inno nazionale ed io quando lo sento in TV, cambio canale.
Giovedì scorso un sondaggio uscito in Italia ha riportato che un cittadino su tre è convinto che ci sia bisogno di una rivoluzione. Non so se è vero, ma ammettiamo che lo sia, lei crede che abbiano ragione?
È verosimile, la gente è incazzata sul serio, ci sono suicidi continuamente, le aziende chiudono ogni giorno e pagheremo le conseguenze dei tagli al bilancio dello Stato per anni. Io faccio parte di quel terzo, desidero una rivoluzione. Bisogna vedere però di che razza. Bisognerebbe cacciare via a un sacco di vecchi ruderi e sarebbe bello farlo con un voto. Tuttavia, la politica dovrebbe essere capace di rinnovarsi in modo endogeno, le proposte dovrebbero provenire dal suo interno. Ci farebbe comodo un buon capo carismatico, sempre che non sia come Berlusconi.

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