martedì 1 dicembre 2009

Quando non basta lasciare tracce

CONTRO IL POSTMODERNO. IL NUOVO SAGGIO DI MAURIZIO FERRARIS
Quando non basta lasciare tracce
In “Documentalità” abbondano le descrizioni di oggetti ma manca il salto a una qualsivoglia critica dell'esistente

GIANNI VATTIMO
La Stampa, 29/11/2009

Perché è necessario lasciar tracce? A questa domanda, che gli fa da sottotitolo, sembra voler rispondere il nuovo, per molti versi affascinante libro di Maurizio Ferraris, che porta come titolo principale Documentalità (Laterza, pp. 429, euro 24). Ma se c’è una domanda che resta tale nella mente del lettore anche alla fine del libro, è proprio quella iscritta nel sottotitolo: davvero è necessario lasciar tracce, e perché? D’accordo: il sottotitolo non è seguito da un punto interrogativo; ma il «perché» fa pensare immediatamente a questo.

La necessità di cui si parla sembra essere più una necessità «descrittiva» che «prescrittiva», giacché il libro vuole essere la proposta di una «metafisica descrittiva di impianto realistico» che si attiene molto rigorosamente a questo programma, senza mai fare il salto in una critica - morale, politica o altro che sia - di quel che «c’è». Ferraris non ci esorta in alcun modo a lasciar tracce, ci spiega (ci «rende conto»: una espressione che avrebbe anch’essa bisogno di qualche chiarimento che ne legittimasse il passaggio dal linguaggio comune a quello filosofico) che nel mondo ci sono oggetti naturali caratterizzati dal fatto di essere del tutto indipendenti da noi, a proposito dei quali parla di «inemendabilità» (la ciabatta che sta sul tappeto - ma anche il gatto sullo stuoino di cui parlano tanto i filosofi a cui Ferraris si riferisce di preferenza) e oggetti sociali, per i quali soltanto può valere il trascendentalismo di Kant, secondo cui, come si ricorda, il mondo si dà a noi in un ordine che non sappiamo se sia oggettivo, giacché è comunque sempre condizionato da un insieme di strutture a priori (quelli che Ferraris chiama, insieme a Quine e alla tradizione analitica, schemi concettuali).

Kant diceva che le intuizioni sensibili senza concetti sono cieche. Ma questo, dice Ferraris, vale al massimo per gli oggetti sociali; la ciabatta e il fondo marino o l’isola corallina di Marx esistono, «ci sono» indipendentemente dal fatto che un soggetto umano li percepisca. Mentre una sinfonia, un codice di leggi, una forma di stato, una lingua, un contratto, una banconota, non «ci sono» se non per i soggetti umani che li «praticano» nelle varie forme proprie a ciascun campo. Questi oggetti sociali, a cui è dedicata - molto comprensibilmente - la maggior parte del libro sono oggetti nella misura in cui sono (niente da fare con i partiti e le tessere) «iscritti». Sono il «risultato di atti sociali (che coinvolgano almeno due persone) caratterizzati dal fatto di essere iscritti: su carta, su un file di computer, o anche semplicemente nella testa delle persone» (p. 360).

Il libro è per l’appunto dedicato a questi oggetti. E non solo perché degli altri ci sarebbe assai poco da dire - almeno in filosofia, giacché chi li studia sono le scienze naturali. Il fatto è che l’esserci degli oggetti naturali serve a Ferraris (secondo una movenza che era la stessa in Kant) per sgombrare il campo agli oggetti sociali. O meglio: per poter usare la stessa nozione di oggetto; e di oggettività.

Qui si deve ricordare che Maurizio Ferraris si è formato nella scuola filosofica di Torino e poi nel seminario filosofico di Heidelberg, che ha maturato la propria posizione in contatto, da un certo momento in poi esclusivamente polemico, con l’ermeneutica e, anche qui con significativi dissensi - con l’insegnamento di Jacques Derrida. Questo sfondo può aiutare a spiegarsi perché in lui, come in un convertito, sia così forte la passione per l’oggetto. Che egli vede minacciato dalla dissoluzione a cui lo avrebbe sottoposto la filosofia moderna e postmoderna, che nasce da Cartesio, si sviluppa in Kant (il trascendentalismo, che Ferraris legge senz’altro come idealismo empirico: il mondo è com’è perché il soggetto lo fa così) e culmina in Nietzsche (non ci sono fatti, solo interpretazioni) e nel testualismo di Derrida (non c'è niente fuori del testo).

Non è una esagerazione polemica dire che Ferraris attacca qui il postmoderno non in nome della modernità e dei suoi valori (questa è la posizione di uno Habermas, per esempio) ma ritornando a prima di ogni modernità. Anche l’avvio del suo libro - che comincia con un catalogo del mondo, una specie di enciclopedia borgesiana concepita però secondo un ordine che si vuole sistematico; ma non troppo diversa dalle raccolte di «meraviglie» di cui si dilettavano i principi cinquecenteschi, e che sono gli antenati dei moderni musei, ha un sapore volutamente arcaico.

Per giusta informazione del lettore, va detto che proprio la passione catalogante e classificatoria che pervade molte delle pagine del libro ne fa una lettura molto accattivante; benché l’autore offra la possibilità di seguire l'argomentazione anche leggendo solo le parti riassuntive che intercala tra i vari capitoli, riesce difficile (anche a chi condivide poco le sue tesi teoriche) saltare le pagine argomentative piene di aneddoti, notizie bizzarre e inusitate, arguzie e amenità varie (sembra che Ferraris a quindici anni avesse già letto tutta la Recherche di Proust e chi scrive, conoscendolo da tanto tempo, prova per la sua voracità di lettore una sincera ammirazione).

Ma con tutto questo, la domanda sul perché: perché dovremmo «render conto» degli oggetti naturali, ideali, sociali in modo descrittivo e non prescrittivo rimane, almeno secondo me, decisiva. Uno dei termini chiave del linguaggio kantiano, come si sa, era la parola «critica»; che certo aveva il senso di «render conto» delle condizioni di possibilità della scienza dell’epoca. Ma se il mondo newtoniano appariva a Kant «in ordine», e dunque meritevole di una critica diretta in fondo a garantirne la legittimità (lasciando però spazio alla morale e alla religione), ha senso «render conto» del nostro mondo sociale con una filosofia che (Searle, «filosofo laureato» di Bush, insegna) volendo essere descrittiva (ma perché?), rischia, anche senza volerlo, di diventare apologetica?

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