martedì 12 maggio 2009

Università e ricerca, no al modello americano


Ecco il documento che presento oggi, al convegno "Cultura ed informazione in Europa" (Roma, sala Capranichetta, piazza Monte Citorio 125).


Che cosa resta oggi in Italia dell’“Onda”, il movimento di protesta che ha scosso le università del nostro Paese, a partire dallo scorso autunno? Quale forma di opposizione radicale possiamo proporre contro la riforma Tremonti-Gelmini, già varata qualche mese fa, e contro i progetti che – ancora più disastrosi – il governo Berlusconi sta annunciando?
La scelta di candidarmi nuovamente al Parlamento Europeo è legata anzitutto alla volontà di portare in Europa, e dentro l’Italia dei Valori, la mia lunga esperienza di professore universitario: un’esperienza che mi ha dato da vivere in molti sensi (economico, certo, ma anche nel confronto continuo con le molte generazioni di studenti conosciuti in quarant’anni di lavoro) e che mi ha fatto conoscere dall’interno i pregi e i limiti del sistema italiano.
Dei mali dell’università italiana si è detto molto (a partire dal sistema dei concorsi per i docenti, fino ad arrivare all’annoso problema del numero chiuso per gli studenti). Ma si è detto, molto giustamente, che nonostante ciò i nostri atenei sono in grado di sfornare “cervelli” preparati e competitivi sullo scenario globale. E si è detto anche della capacità del nostro sistema di garantire l’accesso a strati della popolazione diversi, grazie alla garanzia pubblica sulle università, che restano un importante motore dello sviluppo e della mobilità sociali. Tuttavia proprio questi pregi del sistema italiano oggi appaiono gravemente messi in pericolo, senza che ci si sia mostrati minimamente in grado di affrontare i mali oggettivi delle nostre università.
È un dato di fatto che, se l’Italia partorisce “cervelli in fuga”, ciò significa che dai nostri atenei escono laureati e ricercatori in grado di dimostrare le proprie capacità e l’alto livello della propria formazione. Ed è altrettanto evidente che oggi le nostre facoltà accolgono studenti che provengono da famiglie di livello sociale straordinariamente differente e che perciò hanno la possibilità di formarsi a un livello che fino a una o due generazioni fa appariva impensabile. Tuttavia la riforma Tremonti-Gelmini (il motivo per cui anche io la chiamo così sarà immediatamente chiaro), non soltanto non affronta i mali che ho richiamato, ma anzi mette in grave pericolo il valore pubblico, sociale e culturale di cui finora l’università italiana si è fatta portatrice.
Parlo di riforma “Tremonti-Gelmini”, come molti giustamente fanno dall’autunno scorso, perché è chiaro che gli interventi del governo Berlusconi in materia sono stati finora essenzialmente interventi di bilancio, che dietro al paravento del taglio agli sprechi si sono dimostrati in realtà un colpo al cuore per il funzionamento dei nostri atenei. Questo governo è nato sotto lo slogan della guerra ai fannulloni e ha identificato nei lavoratori pubblici il proprio obiettivo pressoché unico. Ora, è giusto dire che cosa è accaduto quando questo slogan, per opera della riforma Tremonti-Gelmini, si è abbattuto anche sull’università. I tagli al fondo di finanziamento ordinario (la quota di bilancio che il ministero destina alla vita degli atenei pubblici) si sta infatti ripercuotendo drammaticamente sulla vita dei Dipartimenti: tutti i Dipartimenti, anche quelli d’eccellenza (e ce ne sono molti), ai quali non sono stati riservati meccanismi premiali.
Oggi l’università soffre – questo è evidente. Ma il paradosso è che questa sofferenza riguarda proprio le fasce più deboli del mondo universitario: gli studenti e la pletora di lavoratori precari che oggi fa andare avanti i nostri atenei. Spiegherò rapidamente il perché. Intanto però consentitemi di precisare che quando parlo di “sofferenza dell’università” sto dicendo qualcosa di estremamente concreto e di nient’affatto ideologico. L’università italiana soffre dei tagli della riforma Tremonti-Gelmini perché non ha i soldi per pagare le bollette del telefono, le cartucce delle stampanti, le riparazioni per macchinari che sarebbero considerati essenziali in qualsiasi azienda del nostro Paese (dalla fotocopiatrice alle sofisticate apparecchiature di laboratorio, tanto per intenderci), le trasferte di lavoro e di ricerca dei propri dipendenti e collaboratori, la manutenzione ordinaria delle proprie strutture (dalla pulizia alla tinteggiatura degli uffici), i servizi minimi ed essenziali (l’apertura delle biblioteche, la sostituzione dei computer più obsoleti...). Ora, se questi sono gli sprechi da tagliare, il governo dovrebbe spiegarci quale mentalità aziendalistica e capitalistica accetterebbe mai che i propri dipendenti pagassero di tasca propria il mantenimento decoroso degli strumenti più basilari di lavoro. Questa è la sofferenza nella quale la sciagurata riforma Tremonti-Gelmini ha gettato l’università.
Ma il paradosso più grande – lo anticipavo – è che a fare le spese di tutto ciò non sono soltanto i docenti. A una riduzione generalizzata delle risorse economiche per le università corrisponde infatti un incremento esponenziale delle difficoltà per chi usufruisce del “servizio” in termini di didattica (ovvero gli studenti) e per chi a tale “servizio” porta nuova linfa in termini di ricerca e di sviluppo (ovvero i giovani ricercatori precari).
A una università che non ha soldi per fare andare avanti le biblioteche (orari di apertura, acquisto libri, prestito interbibliotecario) o per ospitare gli studenti in strutture minimamente vicine alla decenza (aule di dimensioni sufficienti, computer e altri servizi per gli studenti) corrisponde infatti un’accresciuta difficoltà, da parte delle famiglie meno abbienti, a mantenere i propri figli nello studio. Meno biblioteche, meno computer, aule disagiate e sedi di lezione scomode significano infatti un onere sempre maggiore da parte delle famiglie, che rispondono come possono alle carenze dell’istituzione. Consentire ai propri figli di studiare costa sempre di più: e questo non accade soltanto per la crisi economica generalizzata che stiamo vivendo, ma anche (e soprattutto) perché le università sono in grado di dare sempre meno servizi ai propri iscritti.
In tutto ciò, nel nostro Paese è ormai un lusso anche fare ricerca, ovvero premiare le legittime aspirazioni dei giovani che si sono mostrati più brillanti nel loro percorso accademico e che ambiscono a fare della ricerca non un hobby da coltivare nei fine settimana, ma la loro ragione e fonte di sostentamento. Le riforme del welfare e dei modelli contrattuali (a cui pure qualche governo di centrosinistra non ha mancato di dare il proprio assenso) hanno fatto sì che nell’università siano cresciute esponenzialmente le forme di lavoro “non-strutturato”, ossia precario, che ora raggiungono livelli impressionanti. Mi limito qui soltanto a un dato numerico, che è estremamente eloquente. In molti casi, i censimenti ufficiali che gli atenei producono sul numero e la tipologia dei propri lavoratori mostrano che nei nostri dipartimenti circa la metà delle persone che vi lavora lo fa con contratti precari (contratti a progetto, collaborazioni occasionali, stage, borse di studio): il che equivale a dire che ogni 10 lavoratori “strutturati”, ve ne sono spesso altrettanti che collaborano con tipologie contrattuali precarie.
È questo il modello “americano” che la nostra università sta via via adottando. Dico che si tratta di un modello americano “tra virgolette” per un dettaglio, che però non è affatto trascurabile. Se negli Stati Uniti e in molti altri Paesi alla ricerca è spesso associato lo status di lavoro a tempo determinato, si dà il caso che ciò avvenga attraverso contratti che in genere sono molto ben remunerati e che bilanciano la precarietà con un corrispettivo economico di tutto rispetto. Ora, il nostro Paese, per mano del governo Berlusconi, sembra voler adottare questa filosofia (che già di per sé può essere messa in discussione), aggiungendovi una remunerazione che non è neanche minimamente vicina alla soglia della decenza. In sostanza, nei nostri dipartimenti abbiamo spesso il 50% di lavoratori precari; e questo 50% lavora con contratti che in molti casi non arrivano ai 1.500 euro. Beninteso: sto parlando di 1.500 euro all’anno, e non al mese. Tralascio di dire che inoltre, soprattutto nei dipartimenti umanistici, la precarietà è un dato di fatto che accompagna gli studiosi dal giorno della laurea fino ai 40 anni.
Ma come intervengono in questa situazione i tagli di Tremonti-Gelmini? Anzitutto, è chiaro che nei progetti di legge ora in fase di elaborazione si vede soltanto un generale rimescolamento di carte (all’insegna del principio del “cambiare tutto, perché nulla realmente cambi”), ma nessun effetto concreto sui veri difetti delle nostre università che richiamavo all’inizio: concorsi e avanzamenti di carriera, tra gli altri. E, in secondo luogo, sul fronte della precarietà avviene che in moltissimi casi le forme contrattuali stiano peggiorando oltre l’immaginabile. Parlo della riduzione (e, in molti casi, della sospensione) dei dottorati di ricerca, che sono il punto d’arrivo più alto della formazione dei nostri studenti più meritevoli. E parlo della trasformazione dei contratti precari a cui facevo riferimento, in contratti “a compenso zero”, cioè basati su manodopera esplicitamente reclutata su base volontaria, cioè – per farla breve – con attività didattica o di ricerca svolta in modo totalmente gratuito.
L’università pubblica in Italia oggi è anche questo. Non sto parlando di un futuro più o meno prossimo, più o meno pessimistico. Sto parlando di ciò che i nostri atenei stanno programmando già oggi a livello di bilancio per il prossimo autunno, a partire da settembre 2009. Le nostre università già oggi vivono di questo: studenti che lavorano in strutture disagiate e fatiscenti, con servizi che riducono di giorno in giorno la loro fruibilità; docenti che si confrontano con luoghi di lavoro in cui è garantito lo stipendio (almeno questo!), ma spesso non un supporto normale per qualunque azienda, piccola o grande che sia (ah, se l’“università-azienda” fosse questa...); giovani ricercatori precari che si vedono costretti a lavorare gratis o sottopagati, pubblicando ricerche riconosciute in tutto il mondo, ma senza la prospettiva minima di un futuro nel nostro Paese.
L’Europa, come società della conoscenza, può e deve salvare l’Italia anche in questo. E può farlo con alcune iniziative molto concrete. Mi limito a indicarne quattro, nella speranza che ciò sia anche un contributo alla riflessione e al confronto su altri aspetti.

1) Imposizione ai Paesi membri di criteri di valutazione del merito e della produttività, riconosciuti e riconoscibili, per premiare davvero il merito;

2) Bandi di finanziamento alla ricerca sempre più aperti a tutte le discipline (anche a quelle umanistiche), per migliorare le condizioni di lavoro dei ricercatori precari;

3) Incremento degli scambi internazionali, attraverso maggiori agevolazioni economiche agli studenti Erasmus e ai giovani ricercatori;

4) Facilitazioni all’editoria per la traduzione e la diffusione delle pubblicazioni scientifiche più rilevanti nei Paesi dell’Unione.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Buongiorno,
ho apprezzato il suo intervento: mi permetto un'approfondimento sull'impatto della tecnica nella conoscenza, e in particolare in quella di frontiera, che dovrebbe essere la missione formativa dell'università.
Nell'ambito umanistico l'uso del computer si impone come fonte di accesso al sapere mondiale, oltre che per l'editing dei testi e la comunicazione.
In ambito scientifico è difficile trovare isole di ricerca che prescindano dal software.

Ma molti studenti iniziano la loro formazione imparando l'uso di software proprietari (le cui licenze d'uso spesso sono spesso un costo preponderante nei servizi informatici d'ateneo) ed essendo valutati per la conoscenza procedurale appresa su quei linguaggi tecnici, di cui non hanno - in breve - alcun controllo. Ciò avviene regolarmente nei corsi introduttivi di "alfabetizzazione" (o fidelizzazione?) informatica: di fronte all'opzione se apprendere l'uso di software libero o invece proprietario, la scelta non informata volge a quel che è egemone (non a caso) nel mercato.

L'impatto del linguaggio tecnico sul pensiero degli studenti merita attenzione: essendo un processo inevitabile, che almeno abbia una possibilità di consapevolezza.

Su questo il "banale" apprendimento procedurale, l'abilità all'uso di un mezzo, non può dire molto. Se il software che come studente prima, come giovane ricercatore poi, mi "educo" a usare è una scatola nera di cui tutto ignoro fuorché - se va bene - la relazione tra quel che io vi immetto e quel che ne esce dopo il suo ignoto operare, posso dirmi consapevole più di quanto lo sia l'apprendista stregone che aziona (e subisce) una altrettanto ignota magia?

Il numero di queste particolari "magie" che divengono necessarie nel mio studio oggi, nella mia ricerca poi, è destinato a crescere - coerentemente col mio essere immerso in una società dominata della tecnica. Mi viene il dubbio che ben poco resti da dire a una ricerca che è inconsapevole di quasi tutto quel che le consente di essere ricerca, oggi.

Chi provi ad aprire quella "scatola nera" che usa quotidianamente, scopre che non gli è permesso farlo, con il software proprietario. Non si può studiare (negli USA ci sono addirittura brevetti a blindarne le idee, non solo il modo di implementarle), non se ne possono ridistribuire copie per aiutare chi sappiamo potrebbe giovarne, non si può modificarlo per adattarlo alle proprie necessità, né distribuire versioni derivate fatte da noi.

Con il software libero questo è possibile, da molti anni. Le università dovrebbero riflettere seriamente su questa possibilità, che non è solo quella (seppure tutt'altro che trascurabile) di un notevole risparmio di denaro.
E' una questione di libertà.

Per queste elezioni europee le segnalo la Free Software Pact Initiative in Belgio, Francia e Italia. Ai candidati si chiede di sottoscrivere un patto per il software libero:un bene comune da proteggere e sviluppare.

I lettori/elettori possono invece sostenere l'iniziativa manifestando pubblicamente la loro preferenza per i candidati che si impegnano a sostenere, promuovere e votare leggi e politiche a favore del software libero e delle libertà digitali.

A Vattimo, essendo ben altro che un semplice candidato, esprimo il desiderio che possa contribuire col suo pensiero a questo tema della relazione tra sapere, tecnica e libertà.

Con stima.

Gianni Vattimo ha detto...

Caro amico,
grazie per la tua sollecitazione. Condivido con te l'idea che, in una situazione di monopolio (o quasi), la scelta più ovvia sia anche quella "non-informata": chi non ha competenze specifiche in materia cerca la soluzione più facile, pensando che sia l'unica disponibile sul mercato.
Pensa per esempio a che cosa questo implica per persone come me, che magari hanno una certa età e non riescono a stare dietro a ciò che il progresso offre, anche in termini di aumento delle opportunità e della concorrenza.
Insomma, il tema è così importante che non può essere lasciato all'iniziativa individuale di chi, nel proprio tempo libero, cerca di coltivare qualche manuale di Linux o simili. Le istituzioni sovrannazionali servono anche a questo, perché spesso sono in una situazione di terzietà che lascia loro più libertà di movimento nei confronti dei monopolisti. L'Europa ha già fatto qualcosa in tal senso: sia come Commissione, sia come Parlamento. Vogliamo continuare su questa strada? Sì, in assenza di alternative, credo che anche questa sia una battaglia a misura d'Europa.
E' chiaro che poi, accanto alla "battaglia" culturale sul tema dell'open source, si deve molto più banalmente affiancare una battaglia economica: le licenze costano molto, l'open source no.
Ti lascio almeno con un dato parzialmente confortante. Nella mia università già da qualche anno si organizzano laboratori di sistemi operativi e suite open source: la sensibilità sta dunque aumentando.
Grazie infine per avermi segnalato la campagna di adesioni al patto per il software libero. Aderisco ufficialmente.
Saluti,
GVattimo